La transumanza è una particolare pratica zootecnica di antichissima origine e di estesa distribuzione geografica.
Dire transumanza ha significato dire essenzialmente pastorizia, meglio ancora, pastorizia itinerante. Un significato che trova conferma nella stessa etimologia del termine, derivante dalla fusione delle due espressioni latine trans e humus che vogliono dire: andare oltre, al di là della terra in cui si risiede; e naturalmente farvi ritorno.
Ma la transumanza non è solo una forma di allevamento basato sulla migrazione stagionale delle greggi, dai pascoli di montagna ai pascoli di pianura e viceversa, a seconda delle condizioni climatiche e delle conseguenti disponibilità di foraggio.
La transumanza, è o meglio, è stata, qualcosa di più complesso e soprattutto di più impegnativo che ha richiesto un’organizzazione “industriale” del lavoro anche per far fronte alla elevata quantità di produzione di lana, di pelli, di formaggio e di carne, che derivavano dall’allevamento delle greggi.
Una organizzazione del lavoro che non si è limitata all’autoconsumo o al semplice sostentamento dell’economia domestica, bensì un’organizzazione le cui finalità produttive hanno riguardato soprattutto il mercato e il profitto.
Lo strumento capace di garantire tutto ciò è stato il gregge. Le pecore sono state vere e proprie “macchine rigeneratrici” capaci di convertire la cellulosa in proteine, la lana in tessuti e il letame in fertilizzante per i campi.
Tutti questi processi avvengono in modo autonomo, biologico, ecologico, quindi nel rispetto dell’ambiente e all’insegna della sostenibilità.
Se si vuole immaginare la transumanza del passato non si deve pensare al movimento di singoli pastori che, ciascuno per proprio conto, spostavano in autunno le greggi dagli ovili montani e le conducevano verso i pascoli della pianura, ovvero della riviera Adriatica fino alla Puglia, dell’agro Romano, della Maremma, ecc., per poi ripercorrere in primavera il tragitto inverso.
Al contrario, si deve pensare a lunghe e animate carovane composte da centinaia di greggi con decine di migliaia di capi di bestiame al cui seguito si contavano, decine e decine di uomini a piedi, a cavallo e con i carri.
Passaggio delle greggi transumanti lungo il tratturo prospiciente il Mar Adriatico nei pressi della Torre di Cerarno a Pineto (TE)
Uomini tutti impegnati in diverse mansioni: massari, sotto-massari, pastori, pastoricchi, butteracchi, casari e tutti al servizio di facoltosi datori di lavoro da cui ricevevano per il lavoro svolto un salario in denaro e una modesta quantità di cibo.
Tanto modesta che se una pecora moriva, le carni anziché essere mangiate in loco dai malnutriti pecorai, dovevano essere disossate, salate, essiccate al sole e restituite al “padrone” per il proprio beneficio.
Se è vero che dalle pecore si ricavavano quantità enormi di latte, formaggi e carne (ma non sotto forma di arrosticini, prodotto novecentesco della pastorizia stanziale), è altrettanto vero che tutto questo ben di dio era appannaggio esclusivo dei proprietari delle greggi e non dei pastori che ne governavano il pascolo.
Costoro, per la dura fatica sopportata, oltre alla misera paga avevano diritto a un quantitativo definito di pane, di olio e di sale.
Tutto il resto che poteva essere mangiato era conseguenza del caso e della fantasia. Simile concatenazione di fattori ha fatto sì che la gastronomia della transumanza sia stata una gastronomia povera, di risulta, di furbizia e di sotterfugi.
Quegli stessi sotterfugi che hanno dato luogo a sobri pancotti, a parsimoniose acquecotte, a frugali papponi realizzati con tutto quanto di commestibile poteva essere messo a cottura, insaporendolo con erbe di campo, pezzetti di lardo.
Ma i sotterfugi dei pastori, oltre a rendere gustoso quel poco di mangiabile che il caso e la natura mettevano loro a disposizione, consentivano di assicurarsi anche qualcosa di fortuito con cui variare nascostamente la loro monotonia alimentare. E’ il caso della rinomata, e abruzzese, pecora aglio cotturo, oggi preparata con animali a fine carriera ma in origine realizzata con giovanissimi agnelli che inaspettati parti gemellari mettevano a disposizione delle scarne diete senza che il padrone potesse rendersi conto dell’ammanco.
Ma è anche il caso dell’agnello casc’e ove che, in quasi tutti gli ambiti della tradizione culinaria appenninica, combinava l’ovino giovane con frittata, limone ed erbe aromatiche per preparare la colazione della Domenica di Resurezione unitamente alla coratella (cor, fes, pulmo) e ad altre specialità della gastronomia agropastorale
Specialità che, nei vari momenti dell’anno e in relazione ai vari ambiti geografici coinvolti nella pratica della transumanza, si arricchivano di originali “variazioni sul tema” che scomponevano l’ovino in un caleidoscopio di ricetti includenti ciavarre, (stufato di carne preparato con animale giovane), gnummareddi (involtini di interiora di agnello cotti alla brace),annodate (trippette di agnello cotte con aggiunta di pomodoro), ma anche torcinelli, abbuoti e numerose altre specialità alimentari incluse nella cosidetta cucina del quinto quarto.
Miscischia, carne di pecora fatta essiccare al sole e successivamente tagliata a sottili striscioline condite con sale e peperoncino
Fonte: https://www.ecosangabriele.com/il-nutrimento-dei-pastori
Specialità che, nei vari momenti dell’anno e in relazione ai vari ambiti geografici coinvolti nella pratica della transumanza, si arricchivano di originali “variazioni sul tema” che scomponevano l’ovino in un caleidoscopio di ricetti includenti ciavarre, (stufato di carne preparato con animale giovane), gnummareddi (involtini di interiora di agnello cotti alla brace), annodate (trippette di agnello cotte con aggiunta di pomodoro), ma anche torcinelli, abbuoti e numerose altre specialità alimentari incluse nella cosidetta cucina del quinto quarto.
L’origine della transumanza è legata, da sempre, al fatto che le greggi dovevano pascolare tutto l’anno, con disponibilità di erba fresca per quanto più tempo possibile, portando “gli animale all’erba e non l’erba agli animali”.
Già a partire dal 192 a.C. si creò una magistratura pastorale.
Poi nel secolo I a.C. le pecore transumanti venivano contate nelle stationes poste lungo il cammino, in quelle che poi sarebbero diventate le poste della Dogana, e dovevano pagare una scriptura per ogni animale.
Verso la fine dell’Impero romano si applicò ai pastori la “pensio”, ossia una tassa fissa, che i pastori dovevano pagare per pascolare sulle terre imperiali.
Nel periodo medioevale intervenne la fida pascolo, ossia l’obbligo di pagare, per l’erba messa a disposizione, una “fida” al feudatario o allo Stato.
La fida è tutt’oggi presente su tante terre pubbliche comunali e demaniali.
I tratturi furono dichiarati beni demaniali da Guglielmo il Malo nel 1155, ma è con gli Aragonesi, con la fondazione della Dogana della Mena, ( 1447 – 1806) che il sistema fù perfezionato, organizzato e istituzionalizzato.
“Nel 1532 la regolamentazione dei pascoli di Puglia fù estesa anche a quelli dei pascoli abruzzesi e si stabili che anche coloro i quali non si fossero spostati nel tavoliere dovessero l’intera fida pari a 13,2 ducati per ogni 100 capi posseduti. In questo modo il prezzo degli erbaggi per i locati abruzzesi divenne una vera e propria tassa, che bisognava pagare indipendentemente dall’uso dei pascoli in Puglia” –
Paola Pierucci – Le doganelle d’Abruzzo: Struttura ed evoluzione di un sistema pastorale periferico.
Il pagamento della fida si faceva a credito, credito che scadeva al momento della vendita dei prodotti, così come gli acquisti di beni strumentali necessari al pastore.
E’ anche per questo motivo che prima della partenza delle greggi si tenevano importanti fiere locali, in cui si vendevano i prodotti dell’allevamento e si aveva così la possibilità di pagare il costo del pascolamento.
I pascoli potevano essere distanti fra loro anche centinaia di chilometri e, per poterli raggiungere, tramite i tratturi, ossia larghi sentieri erbosi, originatosi dal passaggio degli armenti, s’impiegavano anche alcune settimane.
“ Il nome ‘tratturo’ comparve per la prima volta durante gli ultimi secoli dell’Impero romano come deformazione fonetica del termine latino tractoria, vocabolo che, nei codici di Teodosio e di Giustiniano, designava il privilegio dell’uso gratuito del suolo di proprietà dello Stato, di cui beneficiavano i funzionari dello Stato e che venne esteso ai pastori transumanti.
Nel periodo di massimo sviluppo la rete viaria si estendeva da L’Aquila a Taranto, dall’Adriatico alle falde del Matese, con uno sviluppo complessivo che superava i 3.000 chilometri e che occupava circa 21.000 ettari.
L’intera rete si articolava in grandi vie, i tratturi, e in vie secondarie, i tratturelli e i bracci, più modesti e con compiti prevalentemente di raccordo capillare fra le grandi arterie e le aree più interne. In Italia i tratturi erano larghi 111 metri; i tratturelli da 32 a 38 metri; i bracci da 12 a 18 “
Il glossario della Transumanza – Roberto Rubino – ARSIA 2008
La pastorizia transumante non ha soltanto condizionato il territorio, ma per millenni è stata la forma economica più importante.
Non a caso pecunia, deriva da pecus, bestiame, quando l’economia si basava sulla pastorizia e sugli scambi commerciali, piuttosto che sul denaro ed il bronzo veniva contrassegnato con l’immagine della pecora.
Il continuo movimento di uomini e animali ha dato origine, lungo i percorsi dei tratturi, prima ad aree di insediamento pastorale e poi alla nascita di paesi e città che con il tempo sarebbero diventati importanti centri economici.
Quando pensiamo ai pastori, fino al 20º secolo, forse pensiamo a persone che vivevano un po’ ai margini della società, privi di cultura, ma molti pastori, anche quelli più umili, avevano conoscenza ad esempio della letteratura cavalleresca, della letteratura epica, alcuni pastori sono diventati degli scrittori. I pastori sono anche i depositari di una cultura montana, una cultura spesso orale, loro conoscono le storie, conoscono i nomi dei luoghi ed hanno anche una conoscenza botanica, anche applicata, come nel caso della medicina veterinaria.
Nella conduzione e nella gestione degli animali al pascolo la presenza del cane pastore è ed è sempre stata fondamentale.
Varrone parla del canis pastoralis, per indicare il cane che seguiva le greggi.
Naturalmente in ogni zona nel corso del tempo sono stati selezionati cani specifici e adatti all’ambiente, ma in Italia quelli che ancora oggi sono indicati come cani-pastore per antonomasia sono il Maremmano-abruzzese e il Bergamasco.
In relazione alle condizioni ambientali e ai compiti a essi affidati dai pastori, questi cani hanno fenotipo e caratteristiche diverse.
Il Maremmano-abruzzese è alto e robusto, coperto con uno spesso manto che lo difende dalle intemperie; è calmo, elegante nei movimenti. È essenzialmente un cane da guardia, dovendo difendere il gregge dai lupi, molto presenti nell’Appennino meridionale e dall’orso, da sempre attivo sulle montagne abruzzesi.